Quello che le agenzie di PR fanno e dovrebbero davvero smettere di fare.(Fool PR Blues)

La storia che il giornalista Fabio Zambelli mi ha inviato (come a molte altre agenzie suppongo) è davvero interessante e contiene alcune osservazioni che meritano un commento.

Le vicissitudini narrate dall’editorialista di TechCrunch Michael Arrington in questo post devono indurre le agenzie, ma soprattutto le aziende, a riflettere sul proprio modo di comunicare e più in generale sul proprio ruolo.

Sentite cosa ci racconta Michael e come descrive l’attività delle agenzie di PR:

"Gone are the days of polite pitches and actual relationship building. Today, PR firms email a story to us as many as 20 times, and call every TechCrunch writer on their cell phones repeatedly. If we say we won’t write a story (which is most of the time), things often turn nasty (check out Lois Whitman at HWH PR/New Media for a fine example). For the most part we’ve dealt with the problem quietly over the last couple of years, other than the occasional lashing out on Twitter. Others, like Wired Magazine’s Editor In Chief Chris Anderson, have been more public with their frustration."

Ecco, leggendo queste poche righe, si comprende al volo la pessima immagine di cui godono le agenzie di PR presso i media e lo scarso valore attribuito dalle aziende all’attività di PR.

Perchè è ovvio che chi lavora in quel modo non raccoglie risultati e le aziende, giustamente, non possono certo ritenere l’attività di relazioni pubbliche un elemento strategico e efficace della propria attività di marketing e comunicazione.

Cosa che invece può e deve essere, ma che richiede ovviamente che l’agenzia possegga competenze e conoscenze sia in riferimento al settore ove l’azienda opera, sia di carattere professionale (da come si scrive un comunicato sino all’utilizzo efficace delle nuove tecnologie di comunicazione).

L’immagine che emerge da quelle poche righe è invece quella di un branco di "passacarte" che dedica la maggior parte del proprio tempo a massacrare di recall i giornalisti. I quali, quando ricevono "contenuti", magari anche contenuti interessanti e ben predisposti, non hanno assolutamente bisogno di essere richiamati. Pubblicano. Ripeto, pubblicano.

Gli ultimi tre articoli (ho detto articoli e non poche righe di news) che sono stati pubblicati per un cliente hanno richiesto due o tre email ciascuno e nessun recall. E non sto scherzando.

Quello che Michael chiama "actual relationship building" è esattamente questo. Si fornisce "valore" al giornalista e si riceve in cambio attenzione per i contenuti che le aziende vogliono tramettere.

Spesso ci è capitato di presentare l’agenzia a manager che trovandosi di fronte qualcuno che gli raccontava come pensava di costruire contenuti di valore per la loro azienda e come veicolarli, mostravano più che altro disorientamento, e si dimostravano particolarmente preoccupati del fatto che non abbiamo una schiera di giovani junior account cui far fare i recall e non disponiamo di prestigiosi uffici di rappresentanza.

Ecco, appunto.

AGGIORNAMENTO: il post del Mante.

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7 risposte a Quello che le agenzie di PR fanno e dovrebbero davvero smettere di fare.(Fool PR Blues)

  1. Luca Fantin scrive:

    Oltre ai corsi universitari sono diversi i seminari che ho seguito in tema di “actual relationship building” in tema di ufficio stampa.

    Si dice e si ridicono le stesse cose: trasparenza.

    Trasparenza che sta nel dire chi si è, per chi si lavora e come si intende raggiungere determinati obiettivi.

    Non mi sembra così difficile fissare un appuntamento col giornalista per un caffè e dire queste quattro “H” e iniziare da questo a costruire una relazione.
    Evidentemente non è facile arrivare al caffè oppure io vivo ancora nel mondo delle chimere.

    Non lo so, non ho ancora avuto esperienze dirette per poter identificare i problemi che generano questo evidente gap.

    Però da quel che continuo a leggere mi sembra ci sia poca voglia di costruire relazioni e c’è un abuso della parola “target”!

    Si continua a premere sulla quantità più che sulla qualità,

    Io adatterei in questo contesto un vecchio principio che mio nonno Aldo (da buon veneto)mi ha tramandato:

    “pochi ma boni!”

  2. Luca Fantin scrive:

    http://www.ferpi.it/ferpi/servizi/cerco_offro_lavoro/job_stage_offer

    Tutti cercano junior account: che sia proprio per svolgere “recall job”?

  3. Enrico Bianchessi scrive:

    mi auguro per loro di no….

  4. Anonymous scrive:

    Parole sante: quando il contenuto c’è i giornalisti pubblicano. Senza tante menate e recall. Pubblicano.

    Gian Maria (http://marchetting.wordpress.com)

    ps: auguri Enrico!

  5. Enrico Bianchessi scrive:

    Ciao Gian Maria, auguri anche te !

  6. Axelle scrive:

    secondo me tutto sta nell’attesa creata presso il cliente e di come si definisce il risultato. Ho notato che molti clienti sono spesso rilutanti a spendere almeno un tempo minimo a parlare con i loro consulenti di cosa fanno veramente, di quanto il loro prodotto sia veramente interessante per il pubblico – o non interessante :) - il che aiuterebbe molto il consulente a scrivere e difendere il proprio pitch presso le redazioni o il giornalista giusto per quel soggetto. Sono d’accordo con te Enrico, mirare bene, lanciare un’idea buona raggiunge di solito un risultato. Devo dire che spesso i messaggi da “passare” sono deboli. Colpa del cliente o del consulente? :)

  7. Enrico Bianchessi scrive:

    Axelle, un giorno (presto) scriverò un post sull’attività di “data mining” che i clienti ti costringono a fare per poter costruire una comunicazione efficace. Ma anche questo, vedi, è una conseguenza del fatto che le aziende non considerano l’agenzia di PR un “business consultant” quale invece può e deve essere.